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Authors | Hanibal Stanciulescu |
Publisher | Universitara |
Year | 2017 |
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ISBN-13 | 9786062805814 |
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Pages | 284 |
Cauda Pavonis. La transcodificazione nella lirica e nei testi narrativi
22,50 lei
Authors | Hanibal Stanciulescu |
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Publisher | Universitara |
Year | 2017 |
Pages | 284 |
Cauda Pavonis. La transcodificazione nella lirica e nei testi narrativi – Hanibal Stanciulescu
Questo libro nacque ovviamente da un doppio intento, ‘didattico’ e allo stesso tempo ‘militante’, e questo non vuol dire affatto che fosse destinato esclusivamente ai professori e agli studenti, ossia massime ai docenti e ai discenti appassionati di sfoghi lirici e di finzioni (e metafinzioni) narrative, ma che si propone piuttosto come stimolo cognitivo in sé e, perché no, come ritorno analitico alle funzioni basilari della letteratura: fornire chiavi di lettura del mondo e degli umani, proporre avventure linguistiche inconsuete e costruir contenuti inaspettati, cioè riflessi del contingente e del necessario, del momentaneo e dell’eterno. Straniare il mondo, indagare il possibile, inventar estensioni insolite del reale, mettere in risalto le misteriose zone di interfaccia tra materialità e spiritualità, riscoprire il sacro il quale, per quanto celato si dimostri, governa ancora la nostra vita (e tutti i grandi scrittori sanno farlo, da Dante a Goethe, da Baudelaire a Eminescu, da Ungaretti a Pavese), devono rimanere per sempre costanti imperative del poetare e del narrare.
In questi tempi di confusione intellettuale in cui i classici di ieri e i grandi autori di oggi sono venduti al supermercato accanto al formaggio, a due passi dal pollo arrosto e non lontano dai jeans, è forse più necessario che mai combattere lo spirito mercantile di alcuni editori e ricordare agli scrittori – e il rigore classico (in tutti i sensi) di Italo Calvino è ancora, senza dubbio, esemplare – che è il loro dovere opporsi alla volgarità che si spaccia per divertimento e al semplicismo che si presenta come ‘espressione’ valida del senso comune. Gli scrittori, per natura, sono dei piccoli profeti atti a svelare ai loro contemporanei verità non sempre facilmente accettabili. All’insegna dei loro insigni predecessori dell’antichità greca e dell’età biblica, nell’età moderna ma anche prima, e Dante e Cervantes ne sarebbero ottimi esempi, molti simili profeti si sono assunti pienamente questo ruolo di guida e pedagogo con serie responsabilità sociali, morali, politiche (non di rado) ed estetiche e mi par naturale far qui menzione di Kafka per esempio.
Come tale, i docenti di letteratura contemporanea italiana dovrebbero forse spiegare ai loro discenti che un romanzo come La sposa giovane (2015) di Alessandro Baricco non ha sicuramente le qualità (ma solo i difetti) di un esperimento postmoderno, essendo piuttosto un atto di suicidio estetico, e che tali e incontrovertibili qualità possiede invece City (1999), eccellente romanzo dello stesso. Voci autorevoli della critica italiana di oggi tra cui Daniela Marcheschi esprimono non di rado perplessità nei confronti dell’atteggiamento ‘commerciale’ di certi, per sfortuna non pochi, professionisti dello scrivere: «… pur di pubblicare e apparire, molti autori anche affermati giocano al ribasso, e si accontentano delle ricette stilistiche che giudicano più efficaci per le vendite…».
Essi non fanno altro che tradire «il mandato antropologico delegato alla parola e alle arti, cioè al segno umano: quello di essere memoria del passato, percezione del presente, progetto del futuro rilanciati con e nella parola portata al massimo grado di espressione e comunicazione».
In questa attività delicata, cioè nell’insegnare e nel predicare letteratura, è importante mettere alla base di ogni tipo di approccio dei criteri assiologici fermi, altrimenti uno slogan come laissez lire, laissez rêver che mi permetto di esemplarvi su l’altro, più noto, non servirà ai giovani come stimolo alla lettura, diventando, al contrario, la descrizione laconica e sconcertante di un’operazione noiosa, di tanti falliti tentativi di empatia, dato il mare magnum di libracci ripetitivi che riempiono le librerie di oggi. Offrire poi ai giovani cultura a pillole – la pillola Omero, il digest di Shakespeare, adattamenti bizzarri di Melville – può casomai produrre una massa immensa di cosiddetti consumatori di finzioni, pronti, al primo inciampo gnoseologico, a scambiare lo sforzo intellettuale imposto dall’intelligenza di un libro con lo sgranocchiar di vari chips perché più cool, più divertente.
Così, presto, la terra sarà popolata da coorti di non lettori spaesati, da battaglioni di accaniti avversari di ogni slancio della mente. Negati ai nobili piaceri dello spirito, questi sbandati iperaccessoriati dalla sensibilità totalmente standardizzata avranno come ideale la conversione degli ‘altri’, dei lettori veri, alla loro (nuova) religione sui vessilli della quale stanno scritte da qualche tempo queste disperanti parole: to have fun.
Ad ogni costo. Il contraltare di questo essere umano alienato per cui la pratica della lettura s’avvicina al calvario è indubbiamente Don Quijote per cui leggere è un modus vivendi. Non a caso Daniela Marcheschi gli rivolge questo encomio che risento il bisogno di collocare qui, alla fine di queste mie preliminari riflessioni: el caballero andante ama «con tale trasporto la letteratura cavalleresca e i valori che essa propone da voler seguire le orme di Amadigi e da diventare pazzo, come tutti i cavalieri (avrebbe notato l’Ariosto).
Nel capitolo trentacinquesimo della prima parte del suo romanzo, Cervantes lo mostra comicamente mentre sogna di combattere contro un gigante e, continuando a dormire, si alza seminudo dal letto, distrugge otri di vino creando lo sconquasso nell’osteria in cui si trova e che lui crede assurdamente un castello. Don Chisciotte vive sognando e sogna vivendo; per lui non conta la differenza fra veglia e sogno, semplicemente sogna sempre ed è perciò una specie di paradosso vivente. È tanta la sua grandezza da diventare ridicolo, ma è la nobiltà di cuore, la passione, la volontà di riscattare, con le sue nobili imprese, la meschinità del mondo a con 11 quistarci. Vogliamo Don Chisciotte, quel suo mondo fantastico, quei suoi sogni in un mondo meschino di uomini piccoli. Quando sta morendo, rinsavito, Sancho Panza lo prega: preferirebbe averlo vivo, come prima ostaggio dei sogni, perché gli è affezionato nella pazzia e per la sua pazzia».